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Le parole per descrivere la felicità in 26 lingue

Lo psicologo Tim Lomas raccoglie termini, non traducibili, che raccontano uno stato d’animo o un’esperienza positiva in idiomi diversi: dal corano all’inuit.


Un vocabolario della felicità, in continua evoluzione. Ecco cos’è «The Positive Lexicography Project», raccolta di parole intraducibili, ideata da Tim Lomas, docente di Psicologia Positiva della University of East London. «Ho cercato i vocaboli online, su siti, blog e tra i paper accademici — racconta a “la Lettura” —. Le persone, inoltre, mi inviano suggerimenti per sottopormi termini nuovi». I quali entrano a far parte del vocabolario a due condizioni: non devono avere un equivalente in inglese e devono descrivere esperienze, stati d’animo e tratti personali positivi. 

«Non utilizzo criteri stringenti — continua Lomas — perché parte del progetto è proprio esplorare cosa è il benessere umano in tutto il mondo. Trovo quindi suggestivo includere parole indirettamente collegate all’ambito della percezione e dell’emotività». Tra cui, ad esempio, «chiaroscuro», inteso come esperienza estetica, una versione visiva dello«yin» e «yang». Seicento sono i vocaboli raccolti finora e organizzati in tre categorie: sentimenti, relazioni interpersonali e carattere umano. Ventisei, invece, sono le parole selezionate per «la Lettura». Per provare a descrivere una sfumatura in più dell’animo umano

Agape

(Amore incondizionato, disinteressato e smisurato. Greco). Tre sono i tipi di amore in greco: eros, legato all’attrazione fisica; philos, sentimento fraterno e di profonda condivisione e, appunto, agape. Il vertice più alto dell’amore, provato da chi dona tutto se stesso senza pretendere nulla in cambio. Come Gesù: nella tradizione cristiana, infatti, il termine indica l’amore di Dio per gli uomini.
             
Balikwas

(Saltare improvvisamente in un’altra situazione e sentirsi sorpreso. Tagalog). Scrive in Balikwas: How to Emigrate to The Philippines Chris Payne, ex professore della University of Maryland emigrato a Tanauan, nelle Filippine: «Il termine significa saltare dall’altra parte, sentirsi sorpresi per una nuova situazione ma anche andare contro corrente». Ossia: abbandonare la propria zona di comfort. Come fanno i visionari, spiega Hal Gregersen del Mit, che dubitano delle certezze, cambiano situazioni, raggiungono risultati sorprendenti.

Chrysalism

(Amniotica tranquillità di essere in casa durante la tempesta. Inglese, neologismo). È una delle parole ideate dal designer John Koenig e raccolte in The Dictionary of Obscure Sorrows. L’autore immagina termini nuovi con l’obiettivo di colmare un vuoto linguistico e attribuire un nome alle emozioni difficili da descrivere. Chrysalism viene da crisalide e vuole rendere l’idea di sentirsi protetti, come in uno stato embrionale.

Dadirri

(Atto di profondo e riflessivo ascolto. Ngangiwumirr, lingua aborigena). «Dadirri è dare voce alla primavera dentro di noi», ha detto Miriam-Rose Ungunmerr Bauman, attivista e artista aborigena. «Quando vivo una esperienza dadirri torno a essere completa. Anche se qualcuno caro se ne è andato posso ritrovare così la mia pace». Perché dadirri, spiega Judy Atkinson della Southern Cross University, è un metodo di cura, una pratica per superare traumi e dolore.

Engentar

(Desiderare di stare soli, ricercare una serena solitudine. Spagnolo). Parola diffusa in Messico, indica il desiderio di allontanarsi dagli altri gioendo della propria solitudine. E per chi non sa stare engentado, esiste una guida, How to Do Nothing with Nobody All Alone by Yourself di Robert Paul Smith, che spiega tutto in una frase di commiato: «Mi scusi, ho un appuntamento con me stesso per sedermi a guardare l’erba che cresce».

Fargin

(Orgoglio e sincera felicità per il successo di qualcun altro. Yiddish). L’opposto dell’invidia. Ma attenzione, ammonisce Michael Wex, scrittore canadese: il fargin è raro e, avendone l’occasione, pochi lo provano. Come racconta in Born to Kvetch: «Un angelo appare a un uomo. “È il tuo giorno fortunato — gli dice — puoi avere tutto quello che desideri, in quantità illimitata, ma il tuo vicino ne riceverà il doppio”. È esasperante, pensa l’uomo. Poi ha un’idea e dice: “Voglio perdere la vista da un occhio”».

Gumusservi

(Il riflesso della luna sull’acqua. Turco). Termine evocativo che Yee-Lum Mak ha inserito nel blog di parole stravaganti «OtherWordly», da cui è nato l’omonimo libro. Grazie al suo potenziale estetico Gumusservi è parola nota anche a chi non parla turco: è un hashtag sui social e anche il titolo di un brano. Malinconico, ovvio. E romantico insieme.

Hygge

(Senso di calore, atmosfera accogliente e amichevole. Danese). Nella classifica 2016 delle parole dell’anno dell’Oxford Dictionaries è finita anche hygge. Termine di moda, ma non nuovo. Tanto che nel 1957 Robert Shaplen sul «New Yorker» ha scritto che l’hygge è dovunque a Copenaghen. «Provo a rendere la mia casa hygge», dice Lomas. La stagione più hygge? L’inverno. Perché, ha scritto Helen Russell in The Year of Living Danishlyhygge è una tazza di tè caldo o un paio di calzini di cashmere. Mondadori ha appena pubblicato in Italia Hygge. La via danese alla felicità di Meik Wiking.

Iktsuarpok

(Quando si aspetta qualcuno e non si riesce a smettere di controllare se sta arrivando. Inuit). Tiffany Watt Smith della Queen Mary University non ha dubbi: iktsuarpok è una sensazione che proviamo tutti, tanto da meritare un posto nel suo The Book of Human Emotions dedicato ai sentimenti più comuni. Per la studiosa la nostra tentazione di controllare ripetutamente la casella email non sarebbe altro che una versione «aggiornata» dell’iktsuarpok. «Non è colpa della tecnologia — spiega — ma del nostro desiderio di contatto in un mondo sempre più isolato».

Jugaad

(Trovare soluzioni innovative, improvvisate e geniali, utilizzando quello che si ha. Hindi). È l’arte del life hacking, la capacità di trovare soluzioni creative, frugali e inaspettate. Proprio come spiega il libro Jugaad Innovation. I due autori, Navi Radjou e Jaideep Prabhu (Cambridge Judge Business School), lo spiegano così: jugaad è una rivoluzione culturale, l’innovazione dal basso, diffusa nei Paesi emergenti. Senza grandi investimenti.

Kanyirninpa

(Abbraccio protettivo e salutare. Pintupi). Per il popolo Pintupi l’abbraccio non trasmette solo affetto, ma infonde salute fisica e mentale. Ha scritto Brian McCoy, studioso di tradizioni aborigene, in Holding Men: «Kanyirninpa è la protezione della famiglia verso un nuovo nato. Per gli adulti il significato cambia: non cercano più l’abbraccio della madre ma quello degli altri uomini. Così i più anziani introducono i giovani all’età adulta».

Lagom

(La giusta misura, né troppo né troppo poco. Svedese). Il lagom è lo spirito della Svezia, dove tutto è misurato, dai temporali al design. «Il termine ha molte applicazioni — scrive Meg, autrice del blog “Something Swedish” — e rappresenta l’ideale sociale e culturale svedese di uguaglianza e libertà». L’origine? Dalla locuzione laget om usata dai vichinghi per indicare l’esatta quantità di idromele che si può bere dal corno prima di passarlo ai compagni.

Mepak

(Il piacere delle piccole cose. Serbo). La felicità? Non dipende dai grandi avvenimenti della vita ma dalle piccole esperienze. Lo spiega il termine mepak e lo conferma l’indagine Little Things in Life Make Us Happiest, in cui Glenn Williams, della Nottingham Trent University, dichiara: «I piccoli piaceri ci aiutano a costruire vite più significative». Qualche esempio di mepak? La ricerca ne cita molti: mangiare cioccolata, stendersi su lenzuola pulite, prenotare un viaggio.

Nunchi

(Capacità di interpretare gli sguardi e di leggere le emozioni altrui. Coreano). Si legge sul blog dell’ambasciata coreana in Canada: «Per un canadese sì significa sì e no vuol dire no. In Corea, invece, sì può significare: è una buona idea ma so che il mio capo non l’approverà e poiché non voglio farti preoccupare preferisco dire sì». Per capire l’interlocutore è necessario leggere il linguaggio non verbale. Ossia sviluppare il nunchi. Come? Osservando: uno sguardo laterale o un respiro profondo dicono molto più di una parola.

Orenda

(Il potere di cambiare il mondo a dispetto di un destino avverso. Urone). Per l’Oxford Dictionariesorenda è il potere magico che i nativi americani Iroquois credono pervada tutta la natura sotto forma di energia spirituale. È la forza dei temporali e del vento ma anche il potere miracoloso che solo alcuni uomini possono esercitare. Gli sciamani, per esempio. Orenda, però, è anche una benedizione: permette a chi ne è dotato di sfidare gli eventi avversi e superarli.

Passeggiata

(Camminata piacevole, tranquilla e rilassata. Italiano). «Non avevo mai sentito la parola finché non sono stato in Italia. Qui — dice Lomas — ho capito il piacere che ne deriva. La passeggiata come il cibo fa parte dell’immagine del Paese». Ne è convinta anche Diane Hales autrice di La Bella Lingua: «All’imbrunire — scrive — qualcosa sembra attirare le persone fuori da case e uffici per partecipare alla passeggiata». Segna la fine del lavoro, a vedere e a farsi vedere — spiega. Indossando, magari, gli abiti appropriati.

Queesting

(Accogliere l’amante nel proprio letto per chiacchierare. Olandese). Il termine, in pieno revival su internet, ha una storica tradizione, descritta dal medico statunitense Henry Reed Stiles nel 1871 in Bundling: its origin, progress and decline in America. La donna, spiega, lasciava di notte le porte della propria camera aperte nell’attesa che l’amante entrasse e le parlasse. Lo faceva per conquistarlo e con il pieno consenso dei familiari.

Ramé

(Caotico e gioioso insieme. Balinese). Qualcosa ramé a Bali? Il gamelan. Si tratta di un’orchestra composta da numerosi strumenti, tra cui tamburi, gong, xilofoni, flauti di bambù e strumenti a corda. La musica prodotta è complessa e articolata, con melodie sovrapposte e più linee ritmiche suonate insieme. Il risultato? Caotico, allegro, vitale. In una parola: ramé.

Samar

(Sedersi insieme per raccontare storie all’ora del tramonto. Arabo). «Samar — dice Lomas — racconta in una sola parola un’intera cultura». E una tradizione antica nel tempo. L’ha descritta il teologo Kenneth E. Bailey su «Themelios», rivista di studi religiosi: gli abitanti dei villaggi si incontrano la sera per raccontare storie e declamare poesie. L’atmosfera è informale e chiunque può partecipare anche se a parlare sono di solito gli individui più in vista. E i più anziani: uomini in grado di tramandare la tradizione orale della comunità.

Tithadesh

(È l’augurio che si rivolge a chi ha acquisito qualcosa di nuovo. Ebraico). Un’auto nuova? Tithadesh! Il termine, allegro, ha però un retrogusto amaro, rivelando l’attaccamento alle cose materiali, come ha spiegato con una storia David Frishman. Il figlio di un povero sarto, ha scritto, si lamenta con il padre che realizza abiti nuovi per i ricchi ma non può permettersi di regalargliene uno. Nessuno, così, in sinagoga gli rivolge tithadesh. Un giorno, però, lo riceve: per il suo funerale. Indossa un abito luccicante per l’occasione ma ha perso quello che conta: la vita.

Ubuntu

(Umanità verso gli altri, sentirsi parte di una grande comunità. Bantu). Sono chi sono in virtù di ciò che tutti siamo. Ecco l’etica ubuntu che ha ispirato anche il nome e la filosofia dell’omonimo sistema operativo basato su Linux, con l’obiettivo di portare l’idea di condivisione anche nel mondo software. Chi ha l’ubuntu, infatti, non può perseguire solo il vantaggio personale. Lo ha spiegato l’attivista e arcivescovo sudafricano Desmond Tutu: «Una persona con l’ubuntu è aperta e disponibile. Quando fai del bene si diffonde, è per tutta l’umanità»

Vorfreude

(La gioia che deriva dall’immaginare piaceri futuri. Tedesco)Vorfreude è «il sabato del villaggio», il piacere di pregustare la festa. Rivela allegria e una sottile apprensione. «Le parole possono essere polivalenti — spiega Lomas —. Il gusto di assaporare il futuro è combinato con la paura che non possa arrivare. Come nell’italiano magari, che significa “forse”, “nei miei desideri” o “se solo”, tenendo così insieme un augurio speranzoso e un pensieroso rammarico»

Wabi-Sabi

(Bellezza imperfetta e consumata. Giapponese). «È la capacità di apprezzare la bellezza di fenomeni vecchi o degli oggetti rotti — spiega Lomas —. Siamo costantemente incoraggiati alla ricerca del nuovo, parole come wabi-sabici permettono di percepire il mondo da un’altra prospettiva. È un termine esteticamente rilevante ma può essere utile anche per considerare la propria vita, per accettare il personale processo di invecchiamento e capire che anche lì c’è un valore».

Xibipiio

(Esperienza di un fenomeno ai limiti della percezione o della coscienza. Pirahã dell’Amazzonia). Qualcosa di simile allo Xibipiio? Il bu-bu-settete dei bambini. Lo spiega Daniel Everett, linguista, nel libro Don’t Sleep, There are Snakes: «La parola si riferisce a quella che chiamo l’esperienza della transizione, l’atto di cominciare o terminare qualcosa, di trovarsi al limite di un fenomeno. Come una fiamma tremolante, che entra e esce dalla nostra percezione».

Yuán fèn

(Relazione determinata dal destino. Cinese). La fatidica coincidenza delle relazioni: non avvengono per caso, ma dipendono dalle azioni commesse nella vita precedente. Chi si incontra, insomma, lo fa grazie a una innata connessione universale. Lo yuán fèn, scrive Kwang-Kuo Hwang della National Taiwan University, offre una prospettiva in cui inserire i sentimenti negativi, come incidenti nelle relazioni, rendendo così più facile il loro superamento.

Załatwíc

(Risolvere una situazione e sistemare le cose arrangiandosi. Polacco). Nel 1986 l’antropologa Janine Wedel in The Private Poland ha intervistato sociologi ed economisti per descrivere la società polacca, di cui, spiega, załatwíc è una delle parole chiave. E lo è stata soprattutto in passato quando, per ottenere documenti e beni si ricorreva all’aiuto di amici e parenti. Che mettevano a frutto quello che avevano: competenza, relazioni o anche solo fantasia.

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http://www.corriere.it/la-lettura/17_gennaio_22/parole-felicita-dizionario-d209e30e-e08c-11e6-a64d-bf022321506f.shtml?refresh_ce-cp

Comunicazione e traduzione a confronto: l’Occidente incontra l’Oriente

In determinati contesti comunicativi tra più persone, per esempio una visita presso un conoscente o una conversazione tra amici, la comunicazione “occidentale” tende a presentare per prima cosa il fatto come si è svolto, per passare successivamente ad eventuali spiegazioni e commenti. Nei paesi arabi invece, la situazione è capovolta. Osserviamo i seguenti dialoghi:

Comunicazione occidentale
  • Ho perso il treno
  • C’era un traffico terribile e l’autobus è rimasto bloccato per quaranta minuti nel centro.
  • Sai, piove, e qui appena cadono due gocce diventa un pantano.
  •  Questa città è sempre più invivibile...
  •  È un periodaccio…

 Comunicazione araba
  •  È un periodaccio...
  •  Questa città è sempre più invivibile…
  •  Sai, piove, e qui appena cadono due gocce diventa un pantano.
  • C’era un traffico terribile e l’autobus è rimasto bloccato per quaranta minuti nel centro.
  •  Ho perso il treno…

Questo modo di procedere nella comunicazione interculturale, quali riscontri può avere? Senza dubbio gli occidentali sono noti per essere spesso troppo diretti ed irruenti in certe circostanze, e allo stesso modo gli arabi ci percepiscono in questa maniera: diretti ed invadenti. Dal loro punto di vista, si evita prima di tutto di entrare nel cuore dell’argomento, anche quando ricevono una visita, solo dopo una accurata accoglienza e convenevoli si passa ad instaurare un dialogo sui fatti da raccontare.

Come si ripercuote tutto questo sul linguaggio e sul pensiero? I processi cognitivi si attivano interagendo con le persone e con il proprio ambiente sociale, portandoci poi ad interiorizzare dei processi ed interagendo con il nostro mondo individualmente. Quindi la natura umana presuppone una competenza sia individuale che sociale, vale a dire il nostro pensiero è anche influenzato dall’esterno, ma tuttavia individualmente prendiamo coscienza delle nostre azioni, riflettiamo, ci confrontiamo e decidiamo il comportamento a noi più vicino e opportuno. Perciò anche il linguaggio è influenzato da questo aspetto sociale, ma è bene precisare che esiste anche una sorta di linguaggio “interiore”, che fa parte della nostra sfera individuale e permette lo sviluppo della consapevolezza metacognitiva e lo sviluppo delle competenze individuali. In breve, ogni lingua è influenzata dall’aspetto sociale, dall’ambiente in cui è nata e che la circonda ed è noto come questi margini siano oggi anche influenzati dagli aspetti linguistici e sociali della globalizzazione.

 Per quanto riguarda la lingua araba, benchè sia molto difficile da apprendere, ma non impossibile, è senza dubbio una delle lingue più poetiche, e ai più nota come una delle più antiche del mondo. È la lingua di 250.000.000 di parlanti, la cui letteratura e cultura è tra le più gloriose nella storia dell’umanità, considerando che rappresenta una civiltà che per secoli ha anticipato le grandi scoperte umanistiche e scientifiche del futuro Occidente.

 Inoltre, non tutti sanno che molti nomi di sostantivi italiani derivano dall’arabo. Infatti, come scrisse il semiologo Daniele Barbieri, nel suo articolo Colpisce più la lingua (araba) che la spada, nella frase “la nave era in avaria. L'ammiraglio uscendo dall'arsenale si lamentò degli acciacchi. Giunto a casa si buttò sull'alcova azzurra mangiando arance e albicocche con un po' di alcool, tutte le parole con la A vengono dall'arabo. Si potrebbe tentare anche con la C“ Ho messo il caffè nella caraffa. Nella dispensa c'è una cassata con i canditi, nella casseruola un po' di carciofi.

Altre parole di origine araba che potremmo citare sono: zenit, zero, alchimia, azimut, chimica, elisir, Gibilterra, harem, intarsio, algebra,monsone, nababbo, cammello. Di l'origine araba sono anche i seguenti sostantivi: almanacco, assassino, aguzzino, bagarino,alfiere, bizzeffe barattolo, cerbottana, chitarra, macabro, cotone, crumiro, taccuino, talco melanzane, nafta, divano, dogana, pappagallo, zucchero ragazzo, denaro, facchino, giubbotto, limone, garza, sciroppo, spinaci, tariffa, zafferano traffico, valigia, gatto, giacca, liuto, magazzino, materasso, nuca, ovatta, ricamo, safari, saracinesca, tamburo e  zecca.

La poeticità della lingua araba è nell’armonia del significato di numerosissime parole, nello stile di vita che sa cogliere emozioni e passioni, ma al tempo stesso con semplicità e profondità. Prendiamo ad esempio i saluti:

Buongiorno - Sabaha l-hary - lett. “mattina di bene”
   Sabaha n-nur - lett. “mattina di luce”

Il significato letterale di “benvenuto” è invece:
“ che tu possa trovare famiglia e pianura”

Espressione che risale al più antico periodo beduino, dove la famiglia è simbolo di calore e protezione, la pianura invece è simbolo di viaggio spensierato a dorso del dromedario.
Prego! -  tafaddala  - letteralmente: “ essere così gentile da fare qualcosa” o meglio “ accomodati, favorisci, prego, fa’ pure”. Inoltre secondo i contesti potrà anche valere per “ prendi, serviti, entra, passa prima tu, dimmi, ecc.”

Passiamo ora alla tecnologia.

Quando le accademie di lingua araba furono chiamate a creare un neologismo per l’elaboratore elettronico, il computer, fu naturale ricorrere al verbo “ hasaba” , cioè “contare”, ma anche “ calcolare, elaborare”, applicandogli lo schema raro di a – u di valore intensivo, che talvolta troviamo in parole come faruq “ saggio”, o con valenza strumentale, come nazur, cioè cannocchiale.
Pertanto l’area della famiglia delle parola come “hisab”, cioè “conto”, e “hasub”, cioè computer, è evidente estrapolando la radice h -s- b.

D’altro canto, strascichi di passato coloniale sono ancora oggi evidenti, anche dei modi di dire. Prendiamo come esempio il contesto di un bar.
Il cameriere viene interpellato con quel termine la cui traduzione letterale è “maestro, insegnante”, termine diffusamente usato anche per interpellare un artigiano, un tassista ecc. ( cit. mastro, capo). Diffuso è altresì nel sud Italia, interpellare alcune maestranze in questo modo. Usuale è anche il francesismo graçon per interpellare un cameriere nei paesi arabi. Il termine standard vero e proprio per cameriere è invece “nadil” che tuttavia viene usato unicamente in letteratura.

E fate attenzione ad ordinare un gelato al bar! Se nel Maghreb /glas/, dal francesismo “glace” , significa gelato, in Arabia Saudita, nei Paesi del Golfo ed in Irak, /glas/ sta per bicchiere!

http://www.torkanweb.com/#!LOCCIDENTE-INCONTRA-LORIENTE/c1jsz/ijpypup265

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Dott.ssa Giovanna Bondanese, laurea in Lingue e Letterature Straniere, laurea magistrale in Traduzione Specialistica, laurea specialistica in Scienze della Mediazione Interculturale. Insegnante di lingua inglese, francese ed italiano per stranieri. Traduttrice, mediatrice interculturale.

Arabic: more accesible than you think

In the ninth in our weekly series on the ten most important languages for the UK’s future, as identified by the British Council’s Languages for the Future report, we turn to the fifth most commonly spoken language in the world, Arabic. Ruth Ahmedzai Kemp is an Arabic translator and teacher and co-founder of Babel Babies, a company promoting language-learning in families.

Arabic is in great demand and there’s a shortage of well-qualified speakers
Ten years ago last week, I started my first graduate job in the UK civil service, where I began studying Arabic on a 15-month intensive course for translators. This was my dream job: studying another language full-time and being paid a decent salary, too. Now, in my freelance work translating and teaching Arabic, I aim to give English speakers access to an unfamiliar world, a vibrant culture, and a perspective on history and politics that we rarely see in our western media.
My experience shows that not only is Arabic much more accessible than many people think, but it is also in great demand. The fact that several government departments, the armed forces and many businesses are prepared to pay for their employees to study it to an advanced level because of the severe shortage of Arabic graduates, shows that for schools and students alike, there are many good reasons to choose Arabic. This is all the more true now that the Qatar Foundation and the British Council are offering grants to support schools wishing to introduce Arabic.
As one of the six official UN languages, Arabic can be a real boost for careers in international organisations and diplomacy, as well as journalism, tourism and international trade, particularly the energy industry. Ten universities in the UK have Arabic departments: if you’re considering your future career, a joint honours degree with Arabic is an excellent choice if you want to develop skills that set you apart.
One common written language, countless spoken varieties
Arabic is not the language of one country, of course, but of 26 nations across North Africa and the Middle East. It is a language that unites at least 400 million native speakers in the Arab world, as well as being something of a lingua franca of Muslims worldwide. However, I tend to warn my beginner students that there isn’t really one language called Arabic, and if you want to get anywhere, you’re actually going to need to dabble in two languages side by side: the standard written language, known as fus-ha (الفصحى, literally: ‘the purest’), and one of the local spoken dialects, which vary a lot more in pronunciation, vocabulary and grammatical structures from one region to another than tends to be the case with other languages.
Written Arabic is revered as the language of the Quran and therefore of the Islamic faith, and as such it has changed remarkably little since the Middle Ages. Arabic students can enjoy seventh-century poetry without too much exertion, which is impressive considering the challenge that even 17th-century writers such as Shakespeare pose to English speakers.
Literacy is important, but don’t neglect the spoken dialect
It is the rather stiff-sounding fusha, aka Modern Standard Arabic (MSA), that is the starting point for most students of Arabic as a foreign language. You need it to develop academically, to read, to write, and use a dictionary. But if you want to speak Arabic on holiday or do business beyond simple pleasantries, you also need to learn a local dialect. If you try speaking fusha in the souq, unless you can throw in the odd bit of colloquial Arabicto pitch yourself at the right register, you risk coming across as the old Etonian spy inCaptain Corelli’s Mandolin in Greece, who tries chatting to the locals in Ancient Greek. Your haggling will get you a much better bargain, and probably make you a friend for life, if you can show that you’ve tried to learn at least a smattering of the local lingo. Films and pop music are the best ways to train your ear to the dialect of your choosing. The Arabic Music Translation blog is a treasure trove I plundered heavily when I had the pleasure of teaching an introductory Egyptian Arabic course to a troupe of English bellydancers!
In fusha, to ask someone their name you’d say ‘maa ismuka?’ whereas Syrians would ask ‘shoo ismak?’ and for Egyptians it’s ‘ismak ay?’ This example demonstrates how keywords like ‘what’ differ between dialects, and how the grammatical endings are simplified in spoken Arabic, making it much easier to learn than written MSA. For that reason, I’d always recommend a student dip into spoken Arabic first, with material like the Michel Thomas audio course for Egyptian or BBC Talk Arabic for colloquial Levantine.
The pronunciation of certain letters varies between dialects. For example, camel (جمل) in MSA and Eastern Arabic is ‘jamal’, but in Egypt it’s ‘gamal’. But because of the cross-border pervasiveness of exports such as Lebanese pop music, Egyptian films and the Qatari news channel Al Jazeera, Arabs tend to be familiar with the rudiments of each other’s dialects, just as people in the UK understand US English. Imagine a heavily accented Glaswegian talking to someone from The Wire (the gritty American television drama) – challenging, but not impossible. While we’re talking about camels, incidentally, the cliché that Arabic has a thousand words for camel might be a slight exaggeration, but this list of related words is staggering all the same.
Arabic is deeply entwined with our European heritage
The language of the Arabs spread outwards from the Hijaz, modern Saudi Arabia, with the conquests by the Islamic Empire. The heritage of Moorish Andalusia still lingers in many Spanish words and place names, and indeed British ones: Gibraltar is a name that evolved from ‘Jabal Tariq’ (جبل طارق) or ‘Tariq’s mountain’. Portugal’s Algarve comes from ‘al-gharb’ (الغرب) meaning ‘the west’ – literally the western-most point of the Islamic Caliphate. It was this rich era of cultural trade alongside the trade of spices and exotic goods that brought the English the words ‘saffron’ (fromأصفر, asfar, yellow), ‘cotton’ (قطن, qutn), ‘coffee’ (from قهوة, qahwa), ‘magazine’ (from مخازن, makhazin, storerooms), and algebra (الجبر, al-jabr) and alcohol (الكحول, al-kuhool), which include ‘al’, the Arabic prefix meaning ‘the’. But the trade of words isn’t all one way, of course. An orange is a ‘burtuqaal’ (برتقال) after Portugal, not unlike our word tangerine from Tangiers. Students are often relieved to find a wealth of English and French words in Arabic, with slight mutations as neither ‘p’ nor ‘v’ exist as sounds in Arabic.
Culturally speaking, modern Europe wouldn’t be what it is today without the impact of medieval Arab civilisation, which had preserved, translated and expanded on texts in various science and humanities disciplines. For example, it is largely due to the scholars ofBaghdad’s House of Wisdom that much of Aristotle survived to be reintroduced in Europe.
Arabic is very unlike Indo-European languages, but easier to learn than you’d think
Like Hebrew, Arabic is a Semitic language and calls on European learners to step outside some of their Indo-European assumptions about how a language should fit together. That said, at a beginner’s level it is an unusually accessible language, with a very simple grammar.
Arabic only has two tenses (past and present) and it dispenses with the verb ‘to be’ in the present tense, as it is understood without being said. I couldn’t believe my luck once when I realised there was an Esme and an Anna in one of my beginners’ groups. Cue much hilarity when they learnt their first two phrases: ‘ismee Esme’ (اسمي ismee = ‘my name’ or ‘my name is’) and “Ana Anna” (أنا ana = ‘I’ or ‘I am’). If only we’d had a Heather too and could say ‘haatha Heather!’ (هذا, haatha = ‘this’ or ‘this is’).
There is also an organic beauty to be found in the language’s highly logical root letter system. Almost every Arabic verb has three core letters from which a multitude of related nouns and adjectives are derived. So, from the letters ‘k’, ‘t’ and ‘b’ (ك ت ب), you get the verb to write (kataba, كتَبَ), and the nouns book (kitaab, كِتَاب), office (maktab, مَكتَب), library (maktabah, مَكتَبة), and writer (kaatib, كاتِب). This gives Arabic learners a real boost: if you know one word from a certain root, you have a short cut to recognising and deciphering new vocabulary which is related (albeit sometimes at a deep and murky philosophical level).
The Arabic alphabet is easier to grasp than it looks
Arabic is written from right to left, and a book begins at what looks like the back for us. Though the script may look like loopy squiggles to an untrained eye, my experience of teaching it is that learning to read and write isn’t as huge a challenge as most people expect. The bit that really messes with your brain is when you encounter numbers in an Arabic text, because they are read from left to right, like English! The alphabet begins in familiar territory with the letters alif (أ), ba (ب) ta (ت), just like the Greek ‘alpha beta’. There are 28 letters, but in fact, there are half as many distinct letter shapes to learn, because many shapes form the basis for two or three different letters, with the number of dots above or below the letter being the distinguishing feature, as is the case with the ‘ba’ and ‘ta’ above.
There are no capital letters and there’s no need to write down short vowels, just as you might use only consonants when texting the word ‘tmrw’. If you really need to display the short vowels, you use little markers above and below the consonants. These feature in children’s books and textbooks for foreigners, but with time it is presumed that you recognise words from the context and no longer need these helping vowel markers. They are only used to remove ambiguity, such as on Twitter to distinguish between ‘follower’ (متابِع mutaabi’) and ‘followee’ ( متابَع mutaaba’).
So many reasons to learn Arabic and so many ways to approach it
The largest group of Arabic learners worldwide are Muslims seeking to understand their holy text, the Quran. But with ever-increasing numbers taking it up for business, personal or academic reasons, there is a flourishing market of teaching materials focusing on communicative language. Many present a fusion of spoken fusha and more colloquial phrases, such as this excellent EU course for business, tourism and schools, and the loveable ArabicPod podcasts.
For a taste of Arabic literature, look to the blog ArabLit (in English) as your guide, and to the online journals Words without Borders and Asymptote to read stories and extracts of novels with the Arabic original alongside the English translation. These sites often include an audio recording of the Arabic, too. The Arab British Centre’s annual Safar film fest, London’s Shubbak Arabic arts festival and the Liverpool Arab Arts festival all make fantastic routes into the cinema, music and cuisine of this rich and diverse part of the world.
Arabic is a written language and a cultural identity that unites a somewhat disparate group of nations. Though local dialects vary, standard Arabic is the foundation on which all these colloquial variants are based, and learning it opens a window onto an incredible range of places and cultures. With so many reasons to learn and so many ways to approach it, why not give it a go? أهلاً وسهلاً Ahlan wa sahlan! Welcome to the family, and may your path be a smooth one.
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http://blog.britishcouncil.org/2014/10/03/arabic-more-accessible-than-you-think/