Enrico Terrinoni è un docente e un traduttore italiano. La sua traduzione dell’Ulisse di Joyce, edita nel 2012 da Newton Compton, ha vinto il Premio Napoli lo stesso anno e si è rivelata un successo di critica e commerciale. Attualmente, oltre a collaborare con la pagina culturale del Manifesto e occasionalmente con il Corriere della Sera, è al lavoro insieme a Fabio Pedone sugli ultimi due libri del Finnegans Wake per Mondadori, completamente inediti in Italia.
Noi di Dude Mag gli abbiamo chiesto cosa significa essere un traduttore e in particolare un traduttore di Joyce. È uscita fuori la lunga intervista nella quale si parla, tra le altre cose, di occulto come sistema cognitivo, di marxismo come critica letteraria, dell’Ulisse come un libro semplice e dei traduttori come classe sfruttata.
Abbiamo notato che tutte le interviste ai traduttori si inabissano sull’impossibilità della traduzione, recitando il noto adagio sul tradurre che equivale a tradire. Caviamoci subito il dente, cosa ci dici sulla questione?
È una non questione perché la possibilità si declina in termini di fattualità: la traduzione si fa da sempre. Oltre a farsi da sempre, c’è il fatto che la comunicazione si basa sulla traduzione, non devo citare Jakobson per spiegare che la traduzione non è solo interlinguistica ma anche intralinguistica: io e te parliamo la stessa lingua ma ci traduciamo.
Traduciamo il pensiero in parole, ma anche le parole in azione, la traduzione è ovunque. John Florio, studioso rinascimentale amico di Giordano Bruno, scrisse «il mio amico il Nolano mi ha insegnato che dalla traduzione nascono tutte le scienze». Lui con scienza intende il sapere e vuole dire che non c’è sapere senza traduzione. Tradurre vuol dire tramandare e il tradire è insito nel tramandare: io tramando qualcosa ed è inevitabile che la tradisca, fa parte della comunicazione stessa. La comunicazione si muove sulla menzogna, è il linguaggio stesso che permette labugia.
Sto andando a Londra a fare una conferenza dal titolo Impossible Translation, con Susan Bassnett, un’importante teorica della traduzione, e Declan Kiberd, noto studioso di Joyce. Il titolo è provocatorio perché se qualcosa è impossibile non dovrebbe darsi, invece la traduzione si fa. E anzi: più un testo è ambiguo, più è aperto e traducibile.
Nel 2012 è uscita la tua traduzione dell’Ulisse di Joyce per i Mammut della Newton Compton. Ci parli della genesi di quest’edizione?
È nata in modo fortuito, ho ricevuto una mail da un editore che conoscevo per essere spiccatamente commerciale che mi chiedeva se volessi fare l’Ulisse. Io mi sono stupito, pensavo a uno scherzo. Solo in seguito mi hanno spiegato che loro cercavano uno studioso di Joyce che avesse pubblicato in merito e che fosse anche un traduttore di autori irlandesi. Io soddisfacevo entrambi i requisiti.
Ho studiato Joyce tutta la vita, da un lato sono stato allievo degli allievi di Giorgio Melchiori, grande deus ex machina dietro la precedente traduzione di De Angelis, dall’altro, in Irlanda, ho studiato con Declan Kiberd che è l’editor dell’Ulisse per la Penguin. Venivo da questi due importanti filoni di studi Joyciani. E l’idea di pubblicarel’Ulisse, un libro allora molto poco letto da noi, con un editore che applicasse prezzi di copertina molto bassi e raggiungesse vaste platee di lettori, era quello che avrei cercato, se avessi scelto io di tradurre il gran libro di Joyce. Ma mi è stato proposto, e a queste proposte non si dice di no.
In che modo si distacca dalla precedente traduzione di Giulio De Angelis?
Non dovrei essere io a dire la differenza tra la mia versione e quella di De Angelis che è ottima e ancora validissima. I critici hanno detto tre cose fondamentalmente.
La prima è che la mia traduzione è più popolare/demotica, ha un linguaggio più vicino a come si parla, quella di De Angelis aveva un linguaggio più aulico e classicheggiante. Il testo di Joyce era aulico o demotico? Dal mio punto di vista, e da quello di tanti altri studiosi, la lingua di Joyce era per gran parte colloquiale, un linguaggio molto basso che a volte tocca delle vette. De Angelis, per rispetto al grande scrittore, prese una deriva aulica.
La seconda cosa che dicono è che il mio è un testo comico. De Angelis era più trattenuto. Hanno persino contato il numero di parolacce che ci sono nella mia versione, dicendo che Terrinoni le ha raddoppiate. Ancora una volta c’è da chiedersi: com’era il testo originale? Le parolacce c’erano ma nella versione precedente sono state spesso aggiustate, non so se per autocensura o incomprensione del gergo. Cock, la variante inglese più volgare per «cazzo», è diventato «uccellino» nella versione di De Angelis. Oggi sappiamo tutti che se uno ti dice cocksucker non sta parlando diuccellini.
La terza particolarità osservata dai critici è l’attenzione alla matrice irlandese, l’inglese di Joyce è d’adozione; lui scrive in inglese quasi per vendicarsi della lingua e della letteratura degli oppressori. Con la sua opera cerca di chiudere con un masso la bocca dei sepolcri imbiancati della letteratura inglese e farla finita col realismo. In Irlanda, l’irlandese gaelico va per estinguersi intorno agli anni cinquanta e Joyce appartiene alla prima generazione che ha l’inglese come prima lingua. Andrew Gibson sostiene allora che Joyce scrive per vendetta contro questa tradizione linguistica e letteraria degli oppressori. Succede quindi che a Dublino l’inglese venga utilizzato in maniera strana. C’è tutto un lessico di parole che significano un’altra cosa se usate a Dublino. I traduttori precedenti, grandi studiosi shakespeariani, ad esempio non conoscevano il gergo irlandese e percorrevano sempre la via inglese.
All’inizio del testo c’è una parola fondamentale, un interazione che in dublinese significa merda, «scutter!». Nel vocabolario inglese la stessa parola è un verbo che significa «scappare via». C’è questo personaggio che non trova qualcosa nelle tasche e dice «scutter!», ed è stato tradotto qualcosa come «scappa via!», non ricordo. Il problema qui è ermeneutico perché Joyce, conscio di questa dualità, sapeva che scrivendo in dublinese si vendicava degli inglesi che non capivano quello che stava dicendo. Ho taccuini pieni di esempi del genere.
La lingua di Joyce costituisce una sfida per ogni lettore ma anche per ogni traduttore. Quali sono state le difficoltà maggiori che hai trovato nell’affrontare un opera come l’Ulisse? Come le hai superate?
Le difficoltà maggiori sono gli scarti di stile. Quando Joyce, come dicevo prima, scrive contro una tradizione letteraria. Un capitolo in particolare, il quattordicesimo, è una parodia di tutti gli stili della letteratura inglese. A partire dalla scrittura anglosassone, passando per l’omiletica medievale, per arrivare fino al gotico e al romanzo realista. Joyce in ogni pagina fa la parodia di uno scrittore.
Come lo rendi in italiano? Se al posto di Dickens faccio la parodia di Manzoni, perdo la pregnanza politica del discorso. In Spagna è stato fatto, hanno preso in giro la letteratura spagnola. Ma è politicamente sbagliato perché non solo Joyce non prendeva in giro gli spagnoli, ma non prendeva in giro neanche gli irlandesi, semmai gli inglesi.
Come se fossero i catalani a parodiare gli spagnoli castellani.
Certo.
Che soluzione hai scelto?
Con il primo revisore, Carlo Bigazzi, ci siamo limitati ad una parodia degli stili, cronologicamente parlando. Partiamo da uno stile italiano antico e mostriamo la progressione. In questo vedi il tradimento, in questo nasce sul campo qualcosa di importantissimo.
Quindi anche voi avete usato la storia letteraria italiana. Partendo, non so, da Dante e da Petrarca?
Sì, ma senza localizzarla su autori particolari. L’importante era mostrare la progressione cronologica, perché uno dei temi di questo passo è la lingua come percorso embrionale che parte dal nulla per arrivare a una forma compiuta.
In casi come questo ti rendi conto del tradimento insito nella traduzione: ci perdi, qualcosa ci perdi.
Un sinonimo di tradurre è rendere e ogni resa è anche un arrendersi.
In particolare la prosa dell’Ulisse tesse un discorso aperto, formato da flussi di coscienza e associazioni libere. Come traduttore hai sentito la necessità di razionalizzare del materiale suggestivo, cioè di seguire il percorso mentale di Joyce, fartelo presente e riproporlo poi in una forma ugualmente suggestiva?
È interessante perché sia nella traduzione precedente, sia in quella successiva di Gianni Celati, per certi versi molto interessante e musicale, spesso si fanno tornare i conti, soprattutto nelle parti del flusso di coscienza: quando c’è qualcosa di strano la mettono a posto. Invece, quello che sembra un caos, non è caos, ma sembra caos. E se sembra caos devi lasciarlo così. Anche a livello di sintassi e di grammatica: quando è incerto il soggetto della frase, è incerto perché è incerto, non è incerto perché non lo abbiamo capito noi.
Questo avviene soprattutto nell’ultimo capitolo, quello di Molly, che ci torna sempre a mente sempre perché sono stati tolti i punti e le virgole. Ma non è solo quello il problema perché sono stati tolti anche gli apostrofi e in inglese gli apostrofi sono importanti. Levando gli apostrofi nascono della crasi, pensa a he’ll, costruzione del futuro, che diventa hell, inferno, oppure we’d, il condizionale, diventa wed, sposarsi. Quando succedono queste cose il testo ti permette di leggerlo in entrambi i modi. Allora ti devi rendere conto che in italiano bisogna creare lo straniamento, e non farti tornare le cose. Nel testo joyciano (ancora di più nel Wake) non siamo mai certi di quello che stiamo leggendo.
Dell’intenzione dell’autore.
L’autore è un fantasma, non arrivo a dire che è morto come hanno fatto in tanti, ma non è la preoccupazione del traduttore capire l’intenzione dell’autore, semmai capire l’intenzione del testo.
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