La
lingua – ci dice Derrida – è sempre la lingua dell’altro. Non si tratta solo
dell’alienazione linguistica riducibile agli effetti di sopraffazione politica
o culturale, a cui si possa reagire o mettere fine attraverso una lotta di
liberazione passando attraverso la difesa dell’autenticità della lingua
d’origine, degli idiomi schiacciati dalla lingua del più forte, che li destina all'oblio. La lingua è come una dimora, ma la lingua già appartiene all'altro
non è mai naturale o abitabile, casomai ospitale, ma non ci appartiene. La
lingua si contamina di altri linguaggi, si mescola con la nostra società e con
ciò che ci circonda, non resta mai fissa ma è in realtà mutevole ai cambiamenti.
L’esperienza
della traduzione ci dimostra una logica folle, mentre traduciamo cerchiamo di
restare fedeli alla nostra lingua e rispettare quella dell’altro, ma ne diamo
un senso così talmente lontano dalla vera realtà della lingua di partenza fino
a perdere così la propria unicità.
La
lingua esiste prima del sorgere delle nazioni, e perciò ancor prima del
concetto stesso di cittadinanza.
La lingua è ciò che siamo, è la nostra identità.