Le lingue vivono. Muore il pensiero

Puntualmente ad ogni inizio d’anno spunta sui giornali la notizia che anche nel 2015 altre lingue spariranno delle poche migliaia che ci sono rimaste e per un paio di settimane, presi dallo sgomento, tutti ci cercheremo in bocca la nostra. Poi ce ne dimenticheremo, continueremo a vivere normalmente e di lingue morenti non si parlerà più fino alla prossima secca di notizie.


Eppure non c’è nulla di più falso della morte delle lingue, tanto che neanche gli scienziati ne hanno una definizione condivisa. Certi si basano sul numero dei parlanti, certi tengono conto anche della loro età, altri ancora definiscono morta una lingua che non è più capace di esprimere la modernità, come ad esempio capita ai dialetti. Non dimentichiamo infatti che i dialetti sono lingue, come è stato detto, con l’unica differenza che non hanno un esercito. Però ci sono dialetti dichiarati morenti che continuano a esistere contro ogni aspettativa e senza nessuna protezione, imbarcando e deformando le parole della lingua forte che li circonda. Eppure l’immaginario collettivo occidentale ha l’ossessione della morte delle lingue, come del resto di ogni tipo di morte.

La lingua è un fenomeno naturale e come tutti ha un inizio, una crescita, una decadenza e una fine che però non è la sua scomparsa bensì solo la sua trasformazione. Allo stesso modo in cui ogni organismo vivente quando si decompone diventa nutrimento per altri organismi nella spietata catena della vita. Così una lingua che cessa di essere parlata solo apparentemente scompare. Perché in realtà si è già da tempo travasata in un’altra più forte che ha accanto e senza che lo si veda l’ha contaminata con le sue forme, con i suoi suoni, con la sua visione della realtà. A nessuno capiterà mai di assistere alla morte della propria lingua come se fosse un caro parente che viene a mancarci, ma l’uomo si accanisce a voler dare alla lingua questa valenza antropomorfica. A immaginare alla lingua un’anima. Una concezione suscitata dalle costruzioni nazionali che hanno chiuso le lingue dentro frontiere e fatto della grammatica il libro sacro di ogni patria. E qui si innesta l’altro insopprimibile luogo comune che pretende una purezza delle lingue e diventa l’ideologia di chi vuole proteggerle da ogni contaminazione esterna.


Nel saggio 'Une politique de la langue', di Michel de Certeau, Dominique Julia e Jacques Revel si cita l'intervento di un tribuno francese nel comitato di salute pubblica al tempo della Prima coalizione:
"Chi dunque, nei dipartimenti dell'Alto e del Basso Reno, in combutta con i traditori, ha chiamato i prussiani e gli austriaci sulle nostre frontiere invase? È l'abitante delle campagne, che parla la lingua del nemico e quindi si sente fratello e connazionale di costui, non già del francese che gli parla in modo diverso e ha altre abitudini!"
Parole che la dicono lunga. La Rivoluzione decapita il re e mette il popolo al suo posto. Ma come si distingue il popolo? Dalla lingua, certamente. Il parlarsi, il capirsi è la condizione essenziale di ogni intesa e controllo. Posta al cuore dell’autorità sovrana, automaticamente la lingua fa dell’incomprensibile il nemico numero uno. Per questo abbiamo tanta paura di perdere la lingua. Perché la identifichiamo con noi stessi, con il nostro vivere in società.

Ma questo è un principio pericoloso. Basta scorrere i libri di storia per constatare la devastazione che ha portato all’Europa e al mondo  il perseguimento della purezza linguistica e razziale. La lingua non appartiene a stati o accademie ma a chi la parla e vive prima e dopo di noi, in un processo di costante cambiamento, quello a cui è soggetto ogni essere mortale.
Il grande problema è che l’uomo europeo ha una visione cristiana della storia, lineare come il dipanarsi appunto di una narrazione che va da un peggio verso un meglio in una prospettiva di progresso fine della storia stessa. Questa prigione mentale ci spinge a leggere anche i fenomeni sociali in modo organicistico. Come le nazioni nascono e muoiono, gli imperi fioriscono e decadono, così crediamo accada anche alla lingua. Con l’aggravante che siccome abbiamo l’illusione di poter controllare la lingua, di possederla in quanto popoli depositari di ognuna, pretendiamo di garantirle l’immortalità che a noi è preclusa. Immaginiamo di proteggerla chiudendola in riserve o imponendole divieti e tutele che non hanno mai funzionato. Si pensi alla misera fine di tutte le lingue artificiali e agli aborti delle lingue imposte, talvolta pur nella loro genialità, come il serbo-croato di Tito, fino alle attuali abominevoli invenzioni come il friulano finto che si insegna nel nostro Nord-est o la rianimazione della settima variante di romancio in Svizzera, che pure era felicemente estinta ma che un accanito spirito di cantone ha riesumato imponendola in valli che parlavano tranquillamente il loro tedesco da secoli.

Non ci accorgiamo che quel che sta veramente morendo non è la lingua ma il pensiero. Basta leggere i giornali, guardare la televisione o sfogliare molti dei libri più venduti per accorgersene. Ovunque scompaiono la complessità del ragionamento, la capacità di astrazione, la costruzione dell’idea. Non tanto la parola, ma il suo uso. La nostra lingua è come un articolato impianto di pensiero che un tempo concepì sistemi e mondi ma di cui oggi siamo capaci di usare solo due o tre ingranaggi. Il linguaggio moderno non conosce più l’articolazione, lo svolgersi di un ragionamento, non ha più il tempo di sviluppare un dire che abbia contenuto. È diventato quasi ideogramma, fatto di centoni dal significato incerto, che cambia a seconda di chi lo usa e di chi lo ascolta. E noi siamo sempre più come quei barbari che si aggirano fra i templi di grandi civiltà estinte senza capire a cosa servano. Presto ci pascoleremo le capre, però grugnendo di sollievo che la nostra lingua sia ancora viva.

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